giovedì 16 dicembre 2010

10 dicembre 2010 - Se la scuola piange, l’università non ride



L’occasione di questa manifestazione pubblica è troppo importante perché non ci sia una testimonianza anche dall’università, non venga fornito anche qui qualche dato saliente del suo attuale dissesto ma venga comunque ribadito il fortissimo ‘NO’ al decreto Gelmini.
Queste occasioni di incontro servono anche come opera di contro-informazione, per segnalare le tante menzogne con le quali l’opinione pubblica è stata preparata a una simile legge e ai nefasti interventi che essa impone al sistema universitario italiano. Perché sui mass-media è in atto da qualche anno una campagna di denigrazione contro tutto il sistema pubblico di istruzione e formazione, una campagna che ha denunciato a più riprese casi di mal funzionamento, di corruzione, di sprechi che chi opera nella scuola e nell’università ben conosce e denuncia da tempo, ricevendo però dalla classe politica, o da chi governa gli atenei italiani, risposte a dir poco velleitarie, talvolta soluzioni che sono servite solo a incancrenire i mali. Ma oggi appare chiaro lo scopo di quella campagna di stampa, e televisiva: attribuire le responsabilità del dissesto solo a chi nella scuola e nell’università opera, di modo che la mannaia calata negli ultimi due anni da Tremonti e Gelmini potesse essere considerata come un intervento moralizzatore improcastinabile. Ed è in questo quadro che i tanti che oggi si oppongono alla sedicente ‘riforma Gelmini’ possono impunemente essere bollati come difensori dello status quo, come passatisti, controriformisti, o perfino come difensori del potere dei baroni.
L’opinione pubblica ha così digerito senza eccessivi rigurgiti la cosiddetta ‘riforma Moratti’, che tra l’altro stabiliva l’esaurimento a partire dal 2013 del ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato, fissando anche i primi tagli dei finanziamenti alle università. Poi è potuto intervenire Tremonti, che con due interventi legislativi (la legge di stabilità n.133 e la n.180, entrambe del 2008) ha imposto per il quadriennio 2009-2013 un taglio complessivo di 1350 milioni di euro del fondo di finanziamento ordinario delle università; ma non solo questo: Tremonti ha anche limitato del 50% il turn over dei docenti universitari, stabilendo per giunta che fino al 60% le nuove assunzioni potranno riguardare figure di ricercatori (a tempo determinato o indeterminato). E infine è arrivata la Gelmini, a coronare con il suo famigerato DdL il disegno di impoverimento del sistema universitario nazionale e di precarizzazione della sua docenza: ed ecco quindi che il ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato (come quello attualmente vigente, che non prevede obbligo di insegnamento) viene da subito posto a esaurimento per essere sostituito da una figura di ricercatore a tempo determinato che avrà, oltre a un contratto precario, l’obbligo di svolgere attività didattica. Con il risultato evidente che, in pochi anni, la stragrande maggioranza di chi insegnerà all’università sarà personale precario, sottopagato e soggetto ai ricatti dei ‘baroni’ nell’ottenimento della conferma del suo contratto provvisorio, e poi della sua stabilizzazione nei ruoli dell’università.
Gli interventi di Tremonti del 2008 hanno anche concesso agli atenei la possibilità di trasformarsi in fondazioni private, e ora il DdL Gelmini prevede che il governo delle università sia demandato a un rettore sempre più sovrano e a un Consiglio di Amministrazione di cinque membri, di cui tre potranno essere ‘esterni’ (privati). Tutto questo ad apportare un cambiamento sistematico che è parte di un progetto politico niente affatto incoerente e rabberciato, come spesso viene detto. Appare invece molto chiaro il disegno globale che riunisce tutti questi interventi: la destabilizzazione del sistema universitario pubblico statale e la sua sostituzione con un sistema basato su una logica puramente aziendalistica, che prevede una presenza sempre più invasiva dei capitali privati (almeno laddove degli imprenditori possano trovare ‘interessante’ un loro investimento) e la precarizzazione dei contratti di lavoro, con un personale usa-e-getta che sarà di volta in volta assunto o licenziato in relazione agli interessi di coloro che nel prossimo futuro potranno decidere delle sorti degli atenei italiani.
Un tale progetto non potrebbe però essere difeso agli occhi dell’opinione pubblica se non ci fossero menzogne e omissioni a oscurarne le vere intenzioni. E così la “razionalizzazione della spesa” e i “tagli agli sprechi” sono i leitmotif che servono a giustificare dei tagli realmente insopportabili per il sistema universitario, omettendo il fatto che l’Italia garantisce al suo sistema universitario e a quello della ricerca un finanziamento al di sotto dell’1% del suo PIL, ossia un 1/5 di ciò che mediamente spendono (in rapporto al loro PIL) i Paesi della UE per lo stesso scopo. Né viene spiegato come farà l’Italia a ottemperare a quegli impegni presi a livello internazionale (il noto trattato di Lisbona) che obbligano tutti i Paesi europei a innalzare al 3% del loro PIL gli investimenti per la ricerca entro il 2010 (cioè già domani). E tanto meno viene detto come mai la nostra classe politica, che non perde occasione di ribadire che dalla crisi si uscirà solo con la ricerca, l’innovazione e la cultura, sceglie la ricetta del taglio del numero dei docenti e della loro precarizzazione, e del complessivo peggioramento del sistema di istruzione e formazione, laddove i nostri partner europei, Germania in primis, stanno da tempo operando in direzione opposta.
Si dice poi che nella sua ultima finanziaria Tremonti ha destinato alle università 800 milioni di euro, ma non viene mai affiancato questo dato apparentemente positivo con quello del taglio già operante. Sarà perché poi basterebbe semplicemente sottrarre agli 800 milioni i 1350 milioni di tagli già previsti per comprendere che il saldo sarà comunque passivo per le università, e ancora di molto? Eppure è bastato promettere ai rettori quei pochi soldi per ottenere il loro consenso al DdL Gelmini.  È bastato dire loro “volete indietro un po’ di euro? e allora appoggiate questa riforma”, perché in molti si sbracciassero in televisione e sui giornali per parlarne bene – anche se, in realtà, il fronte di assenso che mesi fa appariva compatto, oggi risulta molto meno unitario.  
Si continua anche a dire che la ‘riforma Gelmini’ prevede interventi che favoriranno l’ingresso dei giovani alla carriera accademica. Ma basta leggere il DdL nella sua ultima versione e vedere che per un giovane studioso è previsto un percorso di precariato che, contratto “di apprendistato” dopo contratto, arriva a 12 anni. Poi però sarà assunto in pianta stabile, o no? No, perché la legge dice che solo se l’università avrà i conti in attivo potrà bandire per lui (ma anche per altri inevitabili pretendenti) un posto di professore associato, altrimenti il giovane, ormai sui quarant’anni, dovrà tornarsene a casa disoccupato. E per la maggior parte degli atenei italiani, almeno allo stato attuale, il semplice pareggio dei conti appare una pura chimera.
Senza citare poi altre innovazioni ‘epocali’ introdotte dalla Gelmini: la riduzione drastica del diritto allo studio, raggiunta attraverso un progressivo abbattimento delle borse di studio fino al 90% del numero attuale; o la contrazione del numero delle facoltà e dei corsi di studio. E, anche qui, la responsabilità della vituperata loro proliferazione avvenuta negli ultimi anni, a chi dovrebbe essere attribuita? Ma dov’erano i ministri che l’hanno concessa? E perché non si dice che le “università per ogni campanile” sono servite principalmente ai politici locali per farsi belli nei propri collegi elettorali? E perché il tanto decantato principio di responsabilità in questo caso non viene applicato, magari mandando a casa chi queste facoltà e questi corsi di studio in eccesso ha progettato e legittimato?
Invece ogni giorno ci tocca sentir parlare di una meritocrazia finalmente introdotta, di incentivi ai giovani studiosi e agli studenti capaci, di una lotta contro gli sprechi e contro parentopoli perseguita in ogni modo. E nel frattempo, e in silenzio, nell’ultima finanziaria viene approvato un regalo di 25 milioni per le università private; sempre per loro viene previsto un raddoppio dei fondi di ricerca, comprendendo tra le università private anche quelle telematiche, come e-campus, di proprietà di Francesco Polidori, amico di Berlusconi e proprietario anche di quella Cepu dove il Cavaliere si è recato per inaugurare il corrente anno accademico; e passa pure un credito d’imposta di 100 milioni per i privati che finanzieranno ricerche nelle università italiane.
E allora chi è che sta difendendo veramente l’università pubblica italiana e chi è che la sta affossando? Chi è che si oppone alla sua imminente frammentazione e chi invece sta creando le condizioni di un’università italiana composta da tante strutture separate, con atenei di serie A e altri di serie B? E chi è che dunque sta mirando all'abolizione del valore legale del titolo di studio, per cui essersi laureati non sarà più sufficiente per partecipare a un concorso, ma occorrerà avere ottenuto la laurea in determinate sedi universitarie?
E la distruzione dell'università pubblica, come della scuola pubblica, non si iscrive forse in quel più generale processo di frammentazione del Paese che è una tragedia a cui stiamo tutti assistendo con complice indifferenza? L’attacco al sistema nazionale di istruzione pubblica non va forse nella stessa direzione dello smantellamento del sistema sanitario nazionale, della messa in questione di un modello contrattuale di lavoro incentrato sul contratto collettivo nazionale, e ovviamente di quel federalismo fiscale già in parte avviato?
Ma c’è poi anche un’ultima, inquietante domanda: come mai quest’attacco all’università è contrastato, oltre che dai ricercatori, soprattutto dagli studenti e dai precari? Non è paradossale che la difesa della possibilità di un’esistenza futura dell’università pubblica italiana sia lasciata a coloro che ci transiteranno solo temporaneamente? Sarà forse perché sono i più giovani a percepire meglio che la posta in gioco è il futuro, e che è il loro futuro quello di cui tutti siamo stati così malamente espropriati?

Roberto De Romanis
Coordinamento dei Ricercatori dell’Università degli Studi di Perugia

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